Pierre Gramegna La Stampa interview (Italian version)

Intervista a Pierre Gramegna, amministratore delegato del MES
La Stampa, 4 Giugno 2025
Intervistatore: Fabrizio Goaria
Lingua originale: Inglese
La Stampa: Parliamo del contesto economico globale. È un momento di grande volatilità: tra annunci di dazi, contromisure e tensioni geopolitiche. In questo scenario, come si posiziona il Meccanismo Europeo di Stabilità per proteggere l’area euro?
Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è il prestatore di ultima istanza dell’area euro. È stato creato nel 2012, all’indomani della crisi dell'euro. Nella percezione pubblica, siamo uno strumento di crisi – ed è vero: negli ultimi dieci anni abbiamo assistito cinque Paesi. La gente ci associa al nostro ruolo di supporto quando un Paese si trova in grave difficoltà e non riesce più a finanziarsi sui mercati. Ma la nostra missione è anche garantire la stabilità finanziaria e individuare i rischi che possono comprometterla. Abbiamo strumenti che ci permettono non solo di intervenire in caso di crisi conclamata, ma anche in chiave preventiva. È importante che i lettori comprendano questo aspetto: il Mes segue con attenzione l’economia mondiale e quella europea per capire quali siano i potenziali rischi che possano creare instabilità finanziaria.
Lei ha menzionato i dazi: come valutiamo questo pericolo?
È molto semplice. L’Europa ha il più alto rapporto tra commercio e Pil a livello globale, escludendo gli scambi nel mercato interno. Tra il 55% e il 60% del Pil dell'euro area deriva del suo commercio totale con il resto del mondo, a seconda degli anni. Per confronto: per la Cina è attorno al 35%, per gli Stati Uniti circa il 25%. Cosa significa? Che se si riduce il commercio mondiale a causa di nuove barriere, l’Europa sarà colpita duramente.
Le mosse attuali sono corrette?
Sosteniamo pienamente l’approccio della Commissione Europea, che ha sempre dichiarato di voler evitare l’escalation tariffaria. Il dialogo è fondamentale: meno dazi da entrambe le parti, meglio è. Questo è lo spirito dell’Unione Europea, e riteniamo che sia nell’interesse dell’Europa.
Poi?
Se gli Stati Uniti dovessero applicare tutti i dazi annunciati – a qualunque livello – sarebbero loro stessi a soffrirne di più. Secondo gran parte delle analisi, compresa quella del MES, l’impatto negativo sull’economia statunitense sarebbe significativamente più grande di altri Paesi. È una situazione sfavorevole per tutti, e l'Europa è chiamata ad agire per limitare i danni.
La Bce ha mostrato flessibilità negli strumenti di politica monetaria. Penso ad esempio al TPI. Quali sono invece gli strumenti del MES per rafforzare la fiducia nei mercati, in caso di rischi sistemici o tensioni sul debito sovrano?
La Bce, come lei dice, ha una propria area di competenza. Nel Eurosistema [BCE e banche centrale di paese della euro area] , si occupa di politica monetaria, con gli strumenti classici – i tassi d’interesse – e molti altri che ha sviluppato nel corso degli anni. Noi interveniamo dopo. Esiste un collegamento, diretto o indiretto, tra ciò che facciamo e quello che fa la Bce o la Commissione: tutti conduciamo analisi di sostenibilità del debito, che sono fondamentali. È l’analisi che ci dice se un Paese può ancora accedere ai mercati finanziari in condizioni accettabili, o se rischia di non riuscirci. Ma, per il resto, i nostri ruoli sono differenti.
E per quanto riguarda l’assistenza finanziaria: come valutate e stabilite le priorità nel sostenere gli Stati membri in difficoltà, soprattutto in un contesto di incertezza generalizzata?
Il MES può sostenere i Paesi dell'euro area che ne fanno richiesta. Ciò che può motivare una richiesta da parte di un governo è una crisi finanziaria globale o europea, una pandemia – come il Covid – o qualsiasi altro shock esterno o interno.
Come una minaccia esterna?
Esatto. Basti pensare che la crisi finanziaria del 2008 è iniziata negli Stati Uniti: una minaccia esterna che poi si è trasformata in crisi interna. Il MES è presente per fornire assistenza ai Paesi che ne hanno bisogno, indipendentemente dalla causa che ha generato la crisi. Durante la pandemia, il MES ha proposto uno strumento dedicato – il Pandemic Crisis Support – che non è stato mai utilizzato, ma è stato molto importante averlo pronto, nel caso in cui la situazione avesse generato instabilità finanziaria nei Paesi membri. È così che funziona il nostro approccio.
In Italia si discute dell’uso dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per rafforzare la fiducia delle imprese. A suo avviso, le nuove politiche commerciali statunitensi potrebbero costituire un potenziale fattore scatenante per una richiesta di assistenza al MES?
Sì. La risposta è simile a quella precedente. Qualunque sia la causa – che siano i dazi, l’instabilità finanziaria o eventi esterni – ciò che analizziamo è la situazione finanziaria di un Paese. Se uno Stato considera che un fattore esterno stia generando rischi significativi di instabilità finanziaria, può presentare una richiesta al MES.
Una domanda provocatoria: c’è uno stigma nell’area euro legato alla richiesta di aiuto al MES?
È un grande tema di dibattito. Alcuni Paesi ritengono che lo stigma esista. Altri dicono che è solo percepito, non reale. Quel che conta, però, è capire che il MES esiste: la sua semplice presenza rappresenta già un’assicurazione per l’eurozona.
Cinque Paesi hanno beneficiato dell’assistenza del MES. Oggi possiamo guardare indietro con obiettività: quell’aiuto è stato utile. Quei Paesi hanno tratto vantaggio dall’assistenza, hanno fatto riforme – perché i nostri prestiti prevedono condizionalità – e oggi sono tra le economie che crescono meglio.
Ma oggi?
Il dibattito oggi può essere affrontato in modo più razionale. È meglio, come si è visto anche nel caso del piano da 150 miliardi per la difesa presentato per la Commissione, avere un approccio collettivo alla richiesta di prestiti piuttosto che procedere individualmente. È anche una questione di visibilità e percezione pubblica.
Resta però il problema di fondo: chi chiede sostegno al MES può essere visto con occhi diversi.
Quanto allo stigma, dipende molto dal tipo di strumento usato. Se si ricorre al MES per motivi precauzionali – non perché ci sono problemi di finanza pubblica, ma per evitare crisi future – la percezione cambia. Questi strumenti precauzionali, anche se non sono mai stati usati nel nostro caso, esistono. L’FMI ha strumenti simili, e anche lì non sono stati usati spesso.
Ne discuteremo durante la prossima Assemblea annuale dei Governatori che si terrà questo mese, e ne abbiamo già parlato all’Eurogruppo in maggio. Stiamo riesaminando tutti i nostri strumenti finanziari, che in gergo di chiama "toolkit review", con un focus sui prestiti precauzionali. Questi prevengono le crisi, costano meno e hanno meno condizioni. .
Abbiamo menzionato l’Italia. Può spiegare meglio in che modo la ratifica della riforma del Trattato del MES rafforzerebbe la credibilità dell’Europa?
Prima di tutto, è importante ricordare che il MES esiste e funziona anche perché l’Italia ne è parte. Alcuni, non essendo specialisti, pensano che il MES non sia operativo perché l’Italia non ha ancora ratificato la riforma. Non è così. Il MES esiste, è attivo, e ha tutti i suoi strumenti sono operativi.
Cosa significa?
La riforma aggiunge un nuovo strumento per fornire un "backstop" per le crisi bancarie. Dei 500 miliardi disponibili nel MES, 68 sono stati messi da parte per questo scopo. Ma se l’Italia non ratifica, non possiamo attivare questa riserva. Avremmo solo gli 80 miliardi già presenti nel Single Resolution Fund. Se si verificasse una grave crisi bancaria, e più banche si trovassero in difficoltà contemporaneamente, la rete di sicurezza che potremmo offrire non sarebbe disponibile. In quel caso, sarebbe necessario ricorrere di nuovo ai soldi dei contribuenti.
Come, ad esempio, è accaduto con il Monte dei Paschi di Siena…
Esatto. Io ero ministro delle Finanze quando si discussero questi temi. L’obiettivo principale era proprio evitare che in caso di crisi bancarie si dovesse ricorrere al denaro pubblico. La gente non lo accetta più. Per questi motivi, abbiamo sviluppato questa rete di sicurezza. È pronta ed esistente. Auspichiamo che in futuro venga attivata. .
Riguardo alla stabilità finanziaria. Qual è la sua valutazione della situazione in Europa oggi?
Penso si possa dire con chiarezza che, al momento, le banche europee sono resiliente. Ed è una buona notizia. Se confrontiamo la situazione attuale con quella della grande crisi finanziaria e della crisi europea, siamo in una posizione decisamente migliore.
I coefficienti patrimoniali e di liquidità delle banche sono più solidi, anche grazie all’implementazione delle regole di Basilea – non tutte, perché aspettiamo che altri Paesi facciano lo stesso – ma nel complesso, sì, le banche sono più resistenti.
Ma?
Naturalmente, non si può mai essere completamente protetti. Ma oggi stiamo meglio di qualche anno fa, e molto meglio rispetto al periodo della grande crisi. Il sistema bancario europeo è solido. Questo è un punto positivo. Tuttavia, con tutte le altre incognite in gioco – geopolitica, dazi, instabilità – i rischi potrebbero non materializzarsi nel sistema bancario, ma altrove.
A proposito: cosa pensa delle criptovalute e delle stablecoin?
È un tema fondamentale che dobbiamo seguire da vicino. Dobbiamo vedere come gli Stati Uniti regoleranno le criptovalute e le stablecoin. Siamo in una fase di attesa. Le criptovalute sono estremamente volatili: non possono svolgere la funzione di moneta stabile, né essere un rifugio sicuro. Sono strumenti di investimento, di speculazione.
E per quanto riguarda le stablecoin?
La grande domanda è: le stablecoin denominate in dollari sarebbe garantite dalla Federal Reserve? Punto interrogativo. Non lo sappiamo. In Europa, ciò che posso dire è che dovremmo – ed è un tema ricorrente nell’Eurogruppo, che noi al MES sosteniamo al 100% – spingere per l’introduzione dell’euro digitale, un euro digitale emesso dalla Banca Centrale Europea. Sarebbe un’evoluzione credibile e naturale dell’utilizzo dell’euro.
Come vede il mondo e l’Eurozona nel 2026?
Sono ottimista sull’Europa. Quello che sta accadendo fuori dal nostro continente – in particolare la destabilizzazione dell’ordine internazionale che abbiamo conosciuto – è di tale portata che ci costringe a compattarci. Questa pressione esterna, in fondo, ha l’effetto di unirci.
Pensa che questo processo di integrazione possa essere duraturo?
Se guardo alle crisi del passato, ogni volta che ci siamo trovati sotto pressione, l’Europa ha sempre trovato un terreno comune e un modo per agire insieme. E non vedo motivo per cui stavolta dovrebbe essere diverso. Partecipo alle riunioni dell’Eurogruppo, ogni mese, e sento che questa analisi condivisa è presente nella maggior parte dei Paesi membri. Per questo sono molto ottimista.
Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha parlato della possibilità di emettere eurobond, un debito comune europeo. Lei è d’accordo?
Il tema degli eurobond è in discussione da molto tempo. Non vedo, al momento, entusiasmo intorno al tavolo da parte di tutti i Paesi. Per dirla in modo più chiaro: molti Stati membri non sono d’accordo e lo hanno espresso apertamente.
Crede che ci siano comunque strumenti alternativi per finanziare politiche comuni?
Incoraggerei i Paesi a esplorare modi per finanziare congiuntamente la difesa. I paesi non possano farcelo da soli. Le opzioni sono molte: si può coinvolgere il settore privato, combinare investimenti pubblici e privati, trovare nuove soluzioni comuni Europee.
Sta dicendo che servirebbe qualcosa di più mirato, costruito su misura per la difesa comune?
Una soluzione più mirata e funzionale sarebbe, secondo me, un contributo costruttivo al dibattito. Naturalmente, tutto ciò presuppone che i Paesi siano pronti a discutere seriamente di progetti comuni nel campo della difesa. Solo così potremo organizzare in modo efficiente la sicurezza del nostro continente.